Stare tra gli spazi. Porsi sul confine.
Visibilità e Invisibilità. Si è conclusa l’esperienza residenziale di tre giorni in collaborazione con il Progetto Ruàh di Trieste. Giunta ormai alla quinta edizione, quest’anno si è chiamata “Voi siete la luce del mondo”. Una frase che parte sì dal testo evangelico, il che ha la sua importanza specifica, ma che può essere anche un invito rivolto a ciascuno di noi, al nostro mondo interiore affettivo, ad essere luce. Per sè e per gli altri. Senza superbia e senza presunzione, senza “invasamenti” o fervori mistici, solo recuperando dentro le nostre relazioni una dimensione di autenticità visibile. Guardando con coraggio anche là dove c’è l’ombra.
Da ormai molti anni, anche in Italia, i diversi gruppi di persone LGBTI+ credenti hanno avviato percorsi di crescita, di ricerca, consapevolezza e visibilità, laboratori di pratiche sociali, di testimonianza, di integrazione. Intesa proprio come “mettere insieme “, “unire”, al posto di “dividere”, “disintegrare”, “mortificare”.
Un weekend intensissimo da cui torno “ubriaco” di vita, di riflessioni, di testimonianze, di emozioni pensate, di pensieri caldi, gravidi di affettività. Con l’invito a tornare ai propri contesti pieni di consapevolezze, per custodirle in sé e donarle. Giorni di formazione, conduzione e condivisione, centrati tutti intorno ai processi di (in)visibilità. In generale, a 360 gradi, tirandoci dentro tutto: l’identità sessuale, quella lavorativa, le relazioni amicali e di coppia, lo stare nei gruppi, il rapporto orizzontale con la dimensione di fede e le relazioni verticali, più o meno complicate, con i sistemi, le dinamiche e le ruggini dell’istituzione religiosa.
Tutta la persona parla la sua (in)visibilità
Come già in altre occasioni ho potuto dire, non mi interesso dei rapporti tra identità sessuale e identità religiosa in quanto persona di fede. Non è questo il punto e, dal mio punto di vista professionale, non serve sapere se aderisco o meno ad una certa confessione religiosa. Ne parlo da un punto di vista eminentemente psicologico, come individuazione di contesti in cui c’è necessità di guardare a nuove dimensioni del “prendersi cura” delle relazioni. Non “curare”, ma prendersi cura, appunto. Perché non basta denunciare un immobilismo tolemaico: certamente è importante, è fondamentale aprire gli occhi sugli abusi (dei tipi più vari, come sappiamo) di un sistema annegato nel Potere. Ma non basta, a meno che si pensi che i contesti spirituali, di fede, financo istituiti in “religioni”, anch’essi propri dell’umano, anch’essi indici di un bisogno dell’umano, debbano essere spazzati via (dove la parola chiave è “debbano”). Via il bambino insieme all’acqua sporca.
Come mi ha detto giustamente un partecipante: “L’obbiettivo resta la visibilità”. Certamente, e lo sappiamo essere un cammino di gestazione, che, in alcuni contesti e territori, è difficile, doloroso, con doglie di parto più forti che altrove, probabilmente. Imparo ogni giorno di più la necessità di differenziare i livelli, sempre. Non solo e non tanto quando parlo e mi relaziono con me stesso. Quanto, invece, di più quando mi relaziono con gli altri e con altri contesti. Ripercorrendo nella memoria gli sguardi di tante persone incontrate in questa esperienza, sguardi che mi hanno parlato a lungo, ho ripensato all’etimo della parola “cattolico”. Non “cristiano”, perché di cristianità ce ne sono molte.
Ho proprio in mente “cattolico”, mentre mi si affiancano le notizie che giungono dalla Chiesa Anglicana, in cui diversi sacerdoti hanno fatto coming out e sposato i loro amanti-amati e compagni. E poi mi vengono da associare le parole di quel monsignor Charamsa che ha fatto tremare recentemente le fondamenta dell’ex Sant’Uffizio vaticano: “la Chiesa Cattolica ha bisogno della sua Woodstock, della sua rivoluzione sessuale, che può avvenire solo dall’interno”. E ripenso anche alle riflessioni del filosofo Salvatore Natoli, quando dice che la Chiesa Cattolica, con le persecuzioni, ha perso e perde anche oggi la grande opportunità di imparare dalle cosiddette “eresie”.
Se cattolico significa “universale”, al di là delle facili interpretazioni ontologiche o dottrinali, che poco qui mi interessano, in questi giorni di lavoro compartecipato con un bravo sacerdote e con una meravigliosa esperta di biodanza, posso dire di avere ascoltato connessioni universali tra corpo, parola, mente e spirito. Essermi sentito Persona e avere sentito Persone al mio fianco. Se è vero che Gli Universali non esistono, che la Verità in sé è inconoscibile, ci sono, però, almeno due dimensioni dell’universale: una verticale, asimmetrica, fatta di dottrine, regole, normatività. Quella da denunciare, quella da ridimensionare e trasformare. Ma in Friuli, vicino a uno dei confini d’Italia, ho “visto” una dimensione orizzontale dell’universale, forse quella da testimoniare, forse quella che potrebbe essere un altro ingranaggio del motore del cambiamento. Senza intenti da proseliti, ma con un grande senso di speranza e comunione umana.
Prendendo a prestito alcune altre parole emerse ed ascoltate, con l’intento di usarle in chiave metaforico-affettiva, vorrei chiudere così: Ciascuna persona è Gerusalemme. Ciascuna persona è un tesoro che arriva dal mare.